di Felicia Pelagalli – 

Sarà la competenza a fare la differenza, anche nell’innovazione. Quel «competere» che consentirà di comprendere e orientare lo sviluppo tecnologico, evitando scorciatoie emozionali e lamentele preoccupate.

Il potenziale della rivoluzione digitale deve essere sfruttato dall’umanità nel suo complesso e non solo da una cerchia ristretta di beneficiari aziendali. Anche perché i “giganti digitali”, per l’espansione sistemica delle loro attività, sollevano problemi di controllo democratico e di rischio in caso di disfunzione. Occorre però competenza per superare i monopoli, estrarre conoscenza dai dati e andare verso lo sviluppo del “bene comune”.

In una recentissima pubblicazione su Science, Mariarosaria Taddeo e Luciano Floridi sottolineano l’importanza di utilizzare il potere insito nell’intelligenza artificiale come forza del bene. «I sistemi di intelligenza artificiale possono modellare le nostre scelte e le nostre azioni in modo semplice e silenzioso. Questo non è necessariamente dannoso. Ad esempio, può favorire l’interazione sociale e la cooperazione. Tuttavia […] la progettazione e l’uso improprio dell’intelligenza artificiale invisibile possono minacciare la nostra fragile, ma costitutiva, capacità di determinare le nostre vite e la nostra identità e di mantenere aperte le nostre scelte». Le persone devono essere in grado di comprendere i criteri di funzionamento degli algoritmi e i progettisti devono migliorare i sistemi per evitare errori e mitigare i rischi di uso improprio. Servono regole e principi guida.

In Francia il Primo Ministro per il digitale, Mounir Mahjoubi, ha lanciato gli Stati Generali dei nuovi regolamenti digitali al fine di definire una chiara strategia europea sull’innovazione, attraverso un processo di ascolto multi-stakeholder.

In Germania la leader dei socialdemocratici (Spd), Andrea Nahles, ha esortato a contrastare la formazione dei monopoli digitali delle grandi aziende statunitensi, proponendo la legge “Dati per tutti” che richiede alle aziende, con posizione dominante sul mercato, di rendere accessibili gratuitamente una parte dei loro dati, dopo averli resi anonimi.

Aprire i dati è un passaggio fondamentale per restituire valore alle persone che ogni giorno seminano tracce del proprio sé, ma va accompagnato da competenze di analisi e di interpretazione. Capacità di estrarre senso per orientare l’azione.

E il contributo di governance dello sviluppo tecnologico può arrivare anche dal “basso”, non solo dai governi. Qualche mese fa, i lavoratori di Microsoft hanno presentato una petizione, firmata da più di 300.000 persone, per chiedere al produttore di software di annullare il contratto di elaborazione dati e definizione di algoritmi di IA con l’agenzia americana per l’immigrazione.

Già tempo prima i lavoratori avevano diffuso una lettera aperta nella bacheca interna per opporsi al contratto: “crediamo che Microsoft debba prendere una posizione etica e mettere i bambini e le famiglie al di sopra dei profitti”. Di recente, oltre mille lavoratori di Google hanno espresso la loro contrarietà al progetto Dragonfly: il piano segreto per mettere a punto un motore di ricerca volto a soddisfare la censura cinese. Già in passato i lavoratori avevano spinto l’azienda a non rinnovare un contratto con il Pentagono che prevedeva l’analisi delle immagini raccolte da droni in contesti militari. Dopo queste prese di posizione, l’azienda annuncia i sette principi etici che la guideranno nel futuro, impegnandosi a non progettare intelligenza artificiale per sviluppare armi, sorveglianza di massa, o altre applicazioni che infrangano il diritto internazionale e i diritti umani.

La conoscenza derivante dai dati può rappresentare uno straordinario vantaggio informativo per i lavoratori: per migliorare la qualità della vita lavorativa, acquisire nuove competenze e adattarsi a occupazioni in rapido cambiamento.

I nuovi lavori richiederanno più istruzione e competenze rispetto a quelli che andranno persi. Bisogna prepararsi. I dati dell’ultimo rapporto Ocse evidenziano come i lavoratori a maggior rischio di sostituzione abbiano una probabilità tre volte inferiore di essere già impegnati nella formazione, rispetto a quelli occupati in lavori non automatizzabili.

I programmi di formazione risultano utilizzati prevalentemente da coloro che sono già molto istruiti o esperti di tecnologia digitale e cercano di migliorare ulteriormente la loro occupabilità attraverso la padronanza di tecnologie all’avanguardia. Mentre sono pochi i lavoratori nell’estremità inferiore del mercato del lavoro che stanno approfittando di tali programmi.

È necessario ripensare i sistemi educativi e i programmi di studio per garantire agli studenti di oggi di acquisire le competenze che li prepareranno a un mercato del lavoro in rapida evoluzione. I lavoratori stessi dovrebbero essere al centro di questa pianificazione. E il ruolo dei dati e della conoscenza estratta da essi è alla base del processo. Comprendere le aspettative, le preferenze e la mentalità dei lavoratori, soprattutto di quelli vulnerabili, sarà fondamentale per progettare soluzioni efficaci. E in questo sarà importante il ruolo che le rappresentanze sapranno assumere.

Come afferma Marco Bentivogli: «I rappresentanti dei lavoratori sono chiamati a essere competenti su questi temi, perchè il sindacato deve preparare a non temere il futuro». Non è il momento di stare a guardare.

Articolo pubblicato l’ 8 Ottobre 2018 da ©Sole24Ore

– Tutti i diritti riservati –